Il mio inferno televisivo italiano

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Tobias Jones

Pubblichiamo l'articolo di Tobias Jones Il mio inferno televisivo italiano, e una rassegna stampa a corollario dello stesso. Mentre sono opinabili le forzature di Jones nel dipingere Berlusconi (e Forza Italia) come i cattivi da una parte, Gad Ledner (e la sinistra) come i buoni dall'altra, è invece condivisibile l'analisi del ruolo giuocato da Berlusconi e dalle sue televisioni nel livellare verso il basso il tasso culturale italiano, creando un vuoto sì ideologico, ma soprattutto un vuoto di cultura e di valori, sostituendoli con valori effimeri e non-valori, come quelli propugnati dagli spot pubblicitari, dove la ricerca e il desiderio ossessionante del nuovo prodotto immesso sul mercato, qualunque esso sia, sono diventati uno stile ed uno scopo di vita, oppure i non-valori raccontati nei vari talk-show, chat-show, eccetera. Circa l'obiettività di Santoro, invece, ci permettiamo di essere un tantino scettici - a noi pare l'Emilio Fede della sinistra.


Dal Financial Times

  Weekend 18/19 gennaio 2003, MY ITALIAN TV HELL di Tobias Jones 
Traduzione di M. Barattucci

Il mio inferno televisivo italiano

«Una democrazia non può esistere», scriveva Karl Popper, «con una televisione sotto controllo».

In Italia, invece, sembra che le cose vadano nel verso opposto.

La televisione ha già ampiamente influenzato il Parlamento, ed un "porno-soft" ha sostituito le crude notizie. Uno degli attori più importanti dei mass-media del pianeta - Silvio Berlusconi - è il nostro Presidente del Consiglio da 18 mesi, ed il suo impero televisivo (la sua metaforica corte) è ad un paio di mosse dallo scacco matto alla democrazia. Come ci appare la televisione in questo nuovo mondo videocratico? Settimane fa, togliendomi le scarpe ed adagiandomi sul mio divano a Parma, raggiunto il telecomando mi sono chiesto: a cosa assomiglia veramente la TV italiana? Berlusconi - mi chiedo - ha veramente trasformato la realtà nei mondi fittizi e spaventosi di 1984 e Quarto Potere?

È domenica pomeriggio, e cambio su Raiuno. Il programma si chiama Domenica-In. È uno spettacolo di cabaret che dura sei ore. Dopo solo cinque minuti mi sento ubriacato dalle luci vertiginose e dai balletti. Cambio su Canale 5 (uno dei tre canali Mediaset di Berlusconi): c'è Buona Domenica. È esattamente identico. Come su Raiuno, il pubblico applaude sguaiatamente non appena un cantante neomelodico canta vecchie canzoni di Sinatra. Ci sono ragazze in bikini dappertutto. Entrambi sono programmi-manifesto dei network rivali, capaci di catturare ogni domenica l'attenzione di milioni di video-osservatori. A me paiono identici a Benny Hill.

Per familiarizzare con la TV italiana, c'è una sola parola da imparare: Canzonissima. Significa, semplicemente, "canzone vera". È stato, per decenni, il programma più importante della televisione italiana, ed è stato oggi sostituito da dozzine di surrogati. Cantare, si sa, rappresenta le fondamenta della televisione italiana. Le riviste scandalistiche pubblicano addirittura i testi delle vecchie canzoni di modo che ognuno le possa cantare contemporaneamente da casa. Ciò rende la televisione simile ad un lungo karaoke, con presentatori che si scrocchiano le dita non appena la band attacca a suonare. Non a caso, l'evento televisivo più seguito è il Festival di Sanremo, che serve, a febbraio, una settimana di canzoni sciroppose.

Il pomeriggio seguente, alle 19 circa, accendo ancora su Canale 5. C'è il quiz televisivo in prima serata, Passaparola. Per comprendere questo tipo di trasmissioni, ci sono più parole da imparare. Letterine sta per "piccole lettere", Veline sta per "notiziette flash", Schedine sta per "piccole scommesse": sono tutti diminutivi ("ine") descrittivi di ragazze in bikini che ballano eroticamente ad intervalli casuali.

Passaparola è un quiz-show basato sull'alfabeto, di qui "Letterine". Mentre osservo, Gerry Scotti, il presentatore anodico, sta flirtando con una di loro e contemporaneamente compiacendosi alle telecamere. L'Italia, senza dubbio, è la terra dimenticata dal femminismo. Ad un certo punto, è accaduto qualcosa di strano. Nel momento clou dello show, Gerry si dirige dall'altra parte dello studio accompagnato sottobraccio da una delle letterine. "Cari amici, ho un fantastico consiglio da darvi". È un messaggio promozionale, sessanta secondi di pubblicità che interrompono ogni trasmissione televisiva. Solitamente il presentatore promuove prodotti quali: prodotti per la cellulite, prodotti per l'epilazione, prodotti per la crescita dei capelli. Occasionalmente ci sono anche "la scarpa che respira" ed "il materasso che massaggia".

Durante il messaggio promozionale, c'è stato però un inaspettato contrattempo: Filippo, l'amico che mi sedeva accanto sul sofà, mi ha strappato il telecomando di mano ed ha passato in rassegna tutti i sette canali principali.

«Bingo!» ha urlato «C'è pubblicità su tutti i canali!». Non c'era letteralmente nulla da vedere.

«Vedi,» mi ha detto «in Italia è come se non vi fossero brevi pubblicità che interrompono i programmi, ma brevi programmi che interrompono le pubblicità». Mentre diceva ciò, scuoteva la testa in segno di disperazione: davanti a noi lo schermo proiettava un primo piano del sedere di una letterina. Le natiche ondeggiavano agli impulsi elettrici dell'elettrostimolatore, per "forme perfette e toniche".

Sovente, è come se in Italia non vi siano interruzioni pubblicitarie; ci sono interruzioni di brevi programmi.

Il 57% della spesa totale per la pubblicità in Italia si concentra nella televisione (rispetto al 23% della Germania, ed al 33% della Gran Bretagna).

Anche la Rai, il network televisivo statale al quale pago annualmente un canone di 97 Euro, trasmette pubblicità. Tutto ciò sta a significare che la caccia all'audience è cruciale, ed i programmi sono progettati per la quantità e non per la qualità.

«È diventata una sorta di dittatura psicologica», dice Gad Lerner, l'anchorman più intelligente della TV italiana. «La rilevazione auditel (ente misuratore dello share) induce le persone a produrre questi volgari programmi attiragente».

Berlusconi, ovviamente, possiede Publitalia, l'azienda responsabile della vendita del 60% dello spazio pubblicitario nella televisione italiana.

Dopo qualche giorno dall'inizio della mia indagine sulla TV mi accorgo che il mio cervello si è trasformato in mostarda. Una settimana di varietà e quiz-show. Sembra che ci sia una particolare fissazione per il cantare e per le vincite immediate. Ci sono poi tante trasmissioni come Al posto tuo o Uomini e donne, che mostrano tristi fidanzati che litigano tra loro. Infine c'è un riempitivo universale: il calcio. Se hai il satellite puoi persino guardare la tua squadra allenarsi per la prossima partita.

Ma - questa è la strana cosa - non c'è nulla di strano. Se il piacere è una valore, l'Italia è molto più di una democrazia. La TV è una sorta di sala degli specchi che si riflettono l'un l'altro.

Nei quiz-show vengono fatte domande come: "con la lettera M, mi sa dire chi presenta il programma Uomini e donne?". In quest'ultimo programma, Maria De Filippi ospiterà il presentatore che ha fatto la domanda. Più tardi, i tg trasmetteranno lunghi filmati del matrimonio tra la De Filippi e Maurizio Costanzo, il presentatore di Buona Domenica che presenta anche un altro talk-show dal lunedì al venerdì. È la televisione che lavora con le sue stesse insipide interiora.

Più la guardi, e più realizzi che tra tutti questi varietà c'è una piccolissima varietà. E la cosa più stupefacente, è che gli uomini che lanciarono la TV italiana negli anni 50 - Mike Buongiorno e Raimondo Vianello - sono ancora lì, dritti davanti a me mentre scrivo quest'articolo.

È l'equivalente televisivo del trasformismo: il tempo procede, i gusti cambiano, ma gli attori sul palco rimangono sempre gli stessi. Così come accade per i politici, nessun personaggio televisivo è mai andato in pensione, che sta a significare che l'Italia è una sorta di gerontocrazia guidata da aitanti anziani.

Vengono proposti centinaia di film, ma non verrebbero inseriti nemmeno nella categoria dei film di serie B: per lo più passano film d'azione "muscoli e benzina" con Steven Segal o Chuck Norris. Anche le serie TV sembrano perdute in un buco temporale: Colombo, La signora in giallo, Il santo. Questo è il problema reale, lamentano gli italiani patriottici. L'Italia, un tempo il motore artistico del mondo, è diventata un imponente importatore di cultura. Il paese è uno dei mercati principali di Hollywood, con la conseguenza che oggigiorno molti dei più famosi attori italiani sono doppiatori.

Guardare i telegiornali è anche peggio.

Questo pomeriggio stavo guardando il tg su Italia1. «Il Gossip», sorride il giornalista, «questa settimana diventa cultura». L'argomento della notizia riguarda un'intervista con Natalia Estrada - una bomba sexy spagnola - che svela i passi della sua carriera da show-girl, e annuncia orgogliosamente il suo imminente matrimonio con il fratello di Berlusconi, Paolo. Due giorni dopo decido di dare un'occhiata al tg di Rai2. Durante il servizio principale c'è un primo piano di Berlusconi che sorride. Violini suonano una toccante melodia. «Il Presidente del Consiglio», annuncia il giornalista, «è diventato nonno per la seconda volta».

Molti italiani sono profondamente imbarazzati da tutto ciò. Molti affermerebbero che la loro TV è volgare o che "fa schifo": è disgustosa.

L'anno scorso, la signora Ciampi, la moglie del Presidente della Repubblica - politicamente neutrale ed ammirato da tutti - finì in prima pagina dichiarando che la TV è letteralmente "deficiente". Nulla di nuovo. Anni fa, Pier Paolo Pasolini parlò dell'influenza della TV come di un "genocidio culturale" che cancella le tracce di ciò che rende gli italiani un popolo nobile: l'intelligenza e la generosità, il cattolicesimo e la conversazione. Umberto Eco e Dario Fo si sono ripetutamente ed eloquentemente lamentati della situazione televisiva della nazione. L'enigma è: come ha potuto l'Italia - patria delle personalità più creative sulla terra - partorire un tale leviatano? Chi è il responsabile di questa spazzatura?

I critici della cultura pop sono orientati principalmente verso una risposta antropologica. L'Italia, dicono loro, è un paese di immagini più che di lettere. Ha prodotto le belle arti, e molti dei più bei film occidentali. Escludendo le mirabili eccezioni (Dante, Boccaccio, ecc.), quasi tutti i geni della cultura italiana - da Michelangelo a Fellini - sono prodotti d'un estro visivo più che verbale. Questa cultura visiva, questa ossessione per la comprensione e l'ammirazione della bellezza ha fatto della televisione, così come della moda, il fulcro della vita italiana. L'italiano medio di mezza età guarda la televisione per quattro ore al giorno; anche se andate al ristorante troverete un televisore nell'angolo.

In Italia nessun altro medium - stampa, editoria, radio - raggiunge il 50% della soglia di "penetrazione informativa" nella vita di tutti i giorni. Attualmente, il televisore è ovunque tanto da poter essere soprannominato "focolare domestico". È il fuoco che luccica intorno al quale la famiglia e gli amici si uniscono; proprio in Italia, la terra dove tre generazioni spesso dividono lo stesso salotto. Questa è la seconda spiegazione antropologica della saturazione televisiva: l'enfasi sulla vita familiare paradossalmente incrementa il numero di spettatori perché è l'unica cosa che molti familiari hanno in comune. Il modo più semplice per passare un pomeriggio con tua nonna è guardare Buona Domenica.

Un'altra spiegazione per la televisione italiana è di tipo storico: c'è sempre stato un intimo connubio tra i politici italiani e la televisione. La lottizzazione descrive esattamente il modo in cui i canali televisivi, negli anni passati, rappresentavano i feudi dei partiti. Sino ai primi anni '90, le tre reti Rai erano direttamente controllate dai tre partiti dominanti. I democristiani tiravano le redini di Raiuno, i socialisti controllavano Raidue, i comunisti Raitre. La Rai che Berlusconi ha ereditato nel 2001 era certamente di inclinazione sinistroide. Ma ciò che si contesta a Berlusconi non è il fatto di aver cambiato le regole del gioco, legando la politica alla televisione; è il fatto che ha vinto la partita così semplicemente, ed in maniera del tutto convincente. Ha trionfato grazie ad un colpo di tattica geniale. Ha ribaltato i giochi della vecchia generazione dei politici, decidendo di colonizzare la politica attraverso la televisione, e non il contrario. L'impero televisivo di Berlusconi deve la sua nascita all'anomalo contesto economico: negli anni '80, quando Berlusconi è diventato un magnate dei media, la televisione commerciale in Italia attraversava un momento di deregolamentazione. Egli ha plasmato la televisione a sua immagine e somiglianza: uno scaltro venditore che aveva lavorato come cantante in una nave da crociera, ha trasformato la TV in una pubblicità senza fine condita con il varietà (basti pensare che la rivista più seguita che possiede si chiama Sorrisi&Canzoni). Un uomo asservito agli Stati Uniti, ha acquistato i diritti di migliaia di film e soap-opera americani. Ha trasformato la TV in un vuoto ideologico nel quale il medium stesso è divenuto il messaggio. Il risultato, di conseguenza, è che il magnate è diventato Primo Ministro.

Ci sono però elementi per essere ottimisti. In Italia, l'altra faccia della TV - lo spettatore - è molto diversa. Gli italiani non guardano la televisione passivamente come in Inghilterra, in silenzio e ben concentrati, ma attivamente. Basta guardare la TV con gli amici o la famiglia per realizzare che quella scatola è solo un altro familiare: sempre presente, spesso ignorato, e costantemente - come in tutte le conversazioni italiane - interrotto.

"Che stupido" è l'espressione più usata nei confronti della televisione e delle sue orgogliose celebrità. I telespettatori italiani sono palesemente meno passivi della loro controparte anglo-americana. Inoltre, se guardate la televisione dopo l'una di notte, vedrete alcuni dei migliori programmi disponibili: documentari educativi, rassegne di film esteri e approfondimenti delle notizie. Poi c'è La7, un canale nazionale di recente nascita - con Gad Lerner come personaggio di punta - che lotta contro il duopolio Rai-Mediaset facendosi largo nel mercato. Inoltre, dal momento che ogni città italiana vorrebbe essere capitale, si trovano più di 600 canali locali. Molti di questi sono incredibilmente sofisticati e curati. Ogni domenica notte lavoro come inviato sportivo per Teleducato, un canale locale di Parma. La trasmissione è centrata esclusivamente sullo sport e basta un colpo di tosse per far cadere la scenografia. Quando abbandono lo studio, come ogni settimana, lascio il posto a dei superbi critici d'opera, pronti ad emettere verdetti sullo spettacolo della sera stessa. Appena arrivato a casa, dieci minuti dopo, guardo i tre signori sullo schermo che sorseggiano vino come se fossero a casa loro, e si esprimono liberamente sulla prova del soprano nel Rigoletto. Tale sagacia, ovviamente, verrebbe immediatamente bandita alla Rai o a Mediaset.

Le prossime sono settimane fondamentali per il futuro della televisione italiana. Il ministro delle comunicazioni di Berlusconi ha recentemente annunciato un nuovo disegno di legge che propone una radicale modificazione dei regolamenti che riguardano i media (tra cui l'abolizione del tetto massimo del 30% del mercato per i proprietari di un qualsivoglia media, eliminando le restrizioni che riguardano il possesso dei mass-media, e spianando la strada alla privatizzazione della Rai, programmata per il gennaio 2004). Nello stesso momento, tre dei cinque direttori della Rai (rappresentanti dei sette canali via satellite e dei tre canali terrestri statali) hanno rassegnato le dimissioni, forse esausti dell'interferenza politica e della povertà della programmazione.

Attualmente Berlusconi ha praticamente un monopolio effettivo dei mass-media. Chiunque dica il contrario continua semplicemente a nascondere la testa nel televisore. Recentemente ha polemizzato con tre presentatori della Rai che lo criticavano, ed i loro programmi sono stati cancellati.

Anche Blob, un ottimo programma che spesso ha fatto ironia sul potere politico della TV così come è, è stato interrotto dopo aver dedicato una puntata speciale al presidente del consiglio. «Ciò che veramente mi spaventa», dice Gad Lerner, «non è tanto il fatto che la censura arrivi dall'alto, quanto che venga servita dal basso. Chiunque lavori in televisione è a conoscenza del fatto che, per i prossimi cinque-sette anni, la sua carriera dipenderà da Berlusconi, e perciò dovrà leccargli i piedi». A dimostrazione di ciò, pochi minuti fa ho "trovato" un film cult in TV. Un film di Hitchcock su Rete4. Nella scena cruciale del film, quando compare la pistola da dietro le tende, c'è stato il passaggio di una scritta in sovraimpressione, che diceva: «Un anno di successi», ho letto; «dopo il film, a seguire, il discorso di Berlusconi sui risultati ottenuti dal governo».

Questa è la strana cosa. Il movimento politico di Berlusconi, il "Forzismo" potrà anche non essere realmente pericoloso per la democrazia, ma è semplicemente disastroso per la televisione.


  Financial Times all'attacco

La TV italiana vecchia e ridicola

Critiche pesanti agli show, ai telefilm datati, alle telepromozioni 
Gad Lerner "il più intelligente", "Blob" un programma "geniale"

ROMA - Altro che TV deficiente. Quella italiana è tutta sbagliata. Vecchia e ridicola. Utile solo a Berlusconi, che l'ha trasformata «in un vuoto ideologico in cui il mezzo è diventato il reale messaggio. Il risultato è che il mogul è diventato primo ministro». Parola di Tobias Jones, autore di un saggio sull'Italia berlusconiana dal titolo Il cuore oscuro dell'Italia. Che dalle pagine del Financial Times fa un ritratto impietoso della nostra televisione. Pochissime le eccezioni, non si salva quasi nulla. E soprattutto non si salva il presidente del Consiglio, responsabile, secondo l'autore, del tracollo culturale e politico del Paese.

Un inferno. L'inserto domenicale, del quotidiano economico londinese, non sceglie un titolo sfumato per sintetizzare il contenuto. Né ammorbidisce i toni lo stesso Jones, parlando dell'oggetto vero dell'analisi: «Uno dei più grandi protagonisti televisivi del pianeta, Silvio Berlusconi - scrive - è primo ministro da 18 mesi ed il suo palazzo televisivo è ad un paio di mosse dallo scacco matto alla democrazia».

Ma quel che è più gustoso è il resoconto di un'accurata operazione di zapping. A partire dagli show domenicali, «tutti la stessa cosa, ragazze in bikini e interpreti di vecchie canzoni di Frank Sinatra. Sembrano estratti di Benny Hill» dice l'autore.

Una stoccata alle canzonette, «L'evento TV più seguito ogni febbraio è Sanremo, che offre una settimana intera di canzoni smielate», prima di passare alle "ine" che popolano l'immaginario degli italiani: letterine, veline, schedine. Per non parlare delle telepromozioni (cita espressamente Gerry Scotti, la cui foto compare sulla prima pagina dell'inserto), che sul più bello dello show irrompono con «soluzioni per la cellulite, prodotti depilatori e parrucchini". Spesso - commenta Jones - sembra che in Italia non ci siano i break pubblicitari ma piccoli programmi tra gli spot». E fa notare: «Il 57% del budget pubblicitario italiano è speso sulla TV contro il 23% della Germania e il 33,5% dell'Inghilterra».

Una TV vecchia, e pure un po' trombona. «La cosa più sorprendente - si legge - è che gli uomini-icona che hanno lanciato la TV negli anni '50, come Mike Bongiorno e Raimondo Vianello, sono ancora lì. È l'equivalente televisivo del trasformismo: i tempi vanno avanti, i gusti cambiano ma i protagonisti del gioco rimangono esattamente gli estessi. Così come i politici, nessuna personalità TV va in pensione. Il che significa che l'Italia appare come una specie di gerontocrazia guidata da vacillanti vecchietti». Nel segno del rimbambimento anche le serie dei telefilm, «che sembrano bloccate in un loop temporale: Colombo, La signora in giallo, Il santo».

Maria de Filippi diventa la versione bionda e italiana di Oprah Winfrey, la celebre giornalista-conduttrice americana. Ma il suo programma, Amici, viene assimilato a Uomini e donne della D'Eusanio e al Maurizo Costanzo Show e incluso nella categoria dei "chat-show", degenerazione del talk show, dove non si parla ma si chiacchiera e «dove amanti tristi si urlano contro».

Qualcuno si salva. Gad Lerner, ad esempio, «il più intelligente degli anchorman italiani». Jones si dichiara ammiratore de La7, plaude alla ricchezza del'emittenza locale (che conosce perché lavora in un programma sportivo della TV Teleducato) ma cita anche, fra le eccezioni, Blob, «Un programma geniale, che prende in giro i poteri tele-politici».

Dopo la carneficina riservata a programmi e personaggi, il lettore si aspetterebbe che anche al pubblico fosse riservato il medesimo destino. E invece no. Si salva. Perché gli italiani, secondo Jones, «Non guardano la TV passivamente, in silenzio e concentrati come in Gran Bretagna ma in modo attivo. Gli spettatori italiani - conclude - sono meno supini». La TV è considerata «un altro membro della famiglia» che «viene ignorato e costantemente interrotto, come in tutte le conversazioni italiane». Non a caso, segnala Jones, una delle frasi più comuni rivolte a chi parla in TV è «Sei un cretino».

I primi a rispondere a Tobias Jones, Costanzo e De Filippi. «Ci ha confusi con qualcun altro - dicono - nei nostri programmi non ci sono né ballerine in bikini né litigi fra coniugi. Non ospitiamo amanti litigiosi ma corteggiatori. E poi le nostre ballerine indossano pantaloni lunghi».

«È un misto di bacchettonismo e di marxismo. Degno di un paese dove c'è ancora un ramo del Parlamento in cui gli uomini usano la parrucca...». Maurizio Gasparri bolla così la stroncatura del Financial Times. «Dagli stralci che ho sentito - spiega il ministro delle Comunicazioni - mi sembra un articolo che è passato per errore dalla tipografia del Manifesto a quella dell'inserto del giornale inglese. C'è molta spocchia e disinformazione in chi definisce Buona Domenica e Domenica In alla stregua di porno-soft». (Da La Repubblica del 22/2/2003 - Sezione: Cultura Pag. 19 - J'ACCUSE DI UN INGLESE STRONCATO IN INGHILTERRA)


  «TOBIA Jones should get out more»

Di Alberto Papuzzi

«TOBIA Jones should get out more». Tobias Jones dovrebbe informarsi un po' di più. Non è tenero l'autorevole Times Literary Supplement (TLS) nei confronti del pamphlet di Tobias Jones The Dark Heart of Italy (Il cuore oscuro dell'Italia), appena pubblicato da Faber and Faber, in copertina un'immagine dell'ultima campagna per le elezioni politiche, dove si vede un ridente ed ecumenico Cavaliere, non ancora presidente del Consiglio, circondato dalle bandiere di Forza Italia. Il libro e l'autore godono da noi di una certa notorietà per via di un articolo di impronta pamphlettistica, dello stesso Jones, contro i vizi della televisione italiana, pubblicato sul supplemento del Financial Times poco tempo fa.

L'articolo riprendeva alcuni temi e il registro stilistico del suo saggio su «uno dei paesi più belli, creativi e confusionari del mondo», come si legge nel risvolto di copertina. Ne è nata la solita tempesta di polemiche, contro l'arroganza di Albione per Roma. Cui Jones, che vive a Parma, da tre anni, ha replicato puntigliosamente, adducendo le buone ragioni tratte dall'esperienza diretta. Ed ecco, ora, la recensione del TLS (dall'eloquente titolo Judge not, di Martin Clark), che non soltanto spegne i fuochi di Jones con una doccia fredda di dettagliate obiezioni, bensì mette in discussione, come inelegante e pasticciata, l'impostazione del saggio. Non piace al recensore il titolo allusivo, che suggerisce un parallelo fra il Kurtz di Conrad - il personaggio adombrato da Marlon Brando in Apocalipse Now - e il nostro premier: «L'implicito paragone nel titolo di Jones con il Kurtz di Conrad è assurdo».

Non lo convince la critica alla politicizzazione dei giudici: «I giudici italiani possono essere attori politici, ma in quale paese non lo sono?». In qualche modo la politicizzazione è inevitabile «quando "la legge" copre virtualmente ogni ambito». Soprattutto, secondo la recensione, Jones esagera lo scontro tra i supporter di Berlusconi e i suoi oppositori: «Egli scrive di un «viscerale disgusto reciproco - si legge sul supplemento del Times - e avverte che l'Italia "è probabilmente così divisa ora come lo era durante le guerre civili degli anni 40 e degli anni 70". Ciò è ridicolo».

Lo scontro in America fra tradizionalisti e progressisti sarebbe molto più impressionante. Il TLS vede in Italia una comune cultura: sia Berlusconi sia la Sinistra sono laici, tecnocratici, europeisti, riconoscono il mercato economico e l'alleanza con l'America. «La sola opposizione a questo consenso viene da alcuni gruppi cattolici non politicizzati, impegnati nel sociale, e dai no global, rumorosi ma marginalizzati». Insomma Jones, a stare in Italia, si sarebbe macchiato degli stessi eccessi che imputa agli italiani. Quando si dice gli inglesi.

  Blob: da Ejzenstejn a Ghezzi

Tobias Jones, nel saggio Il cuore oscuro dell'Italia apparso recentemente sul Financial Times, individua in Blob di Enrico Ghezzi un programma geniale, uno degli ultimi liberi, in questa Italia in cui la televisione è solo poco più di una grande vetrina di supermercato, organizzata con sublime gusto kitsch che dei creativi veri non riuscirebbero ad inventarsi nemmeno facendolo apposta. Censurato Luttazzi per aver invitato nel suo programma una persona con le prove sulle origini "sporche" del denaro del premier (ma questa è ormai storia vecchia), fuori causa Santoro, colpevole solo di obiettività, come fa una trasmissione come Blob, con la sua carica satirica onnipresente, ad essere sfuggita ai medievali censori? Semplice, i cosiddetti "censori" (che non accetterebbero mai questo appellativo, perché censura=brutto e loro invece si sono appena fatti il lifting...) non la capiscono. Il messaggio non è spiattellato in faccia come si fa ormai con gli spot, bensì creato tra le pieghe di un sapiente "montaggio delle attrazioni".

A beneficio dei non addetti ai lavori, vado ora a spiegare le origini storiche (così intanto ripasso per l'esame di storia del cinema...). Siamo nella Russia fresca di rivoluzione comunista, ed il nuovo mezzo espressivo chiamato cinematografo viene forse per la prima volta considerato nel pieno delle sue potenzialità, tanto da creare una "scuola" direttamente appoggiata dal regime bolscevico. In questo ambiente, il precursore fu Lev Kulesov, che lasciò il suo nome scolpito nella storia del cinema associato al cosiddetto "Effetto Kulesov": montando in sequenza un primo piano di un noto attore di teatro con un'espressione neutra sul viso e, di volta in volta, un piatto di minestra, una bara e una bambina che gioca, scoprì che si potevano creare sensazioni diverse. Gli allievi di Kulesov, interrogati al proposito, dissero che nel primo caso l'espressione dell'attore era "affamata", nel secondo "addolorata" e nel terzo "paterna": ma l'inquadratura dell'uomo era sempre la stessa! Si trattava di una delle prime "magie" del cinema: il concetto non è né nella prima, né nella seconda inquadratura, bensì nasce dall'accostamento (tecnicamente si parla di "copulazione", e non ridete) delle due. Sergej Ejzenstejn teorizzò ed applicò le possibilità date dal nuovo medium, sviluppando un vero e proprio linguaggio cinematografico diverso dalla semplice immagine o parola scritta. Il già citato "montaggio delle attrazioni" è il mattone fondamentale della teoria ejzensejniana: l'accostamento di due immagini attrae lo spettatore, creando violentemente nella sua mente una sensazione, un'idea, un concetto. La cripticità di alcuni accostamenti presenti nei suoi film creò la definizione di "montaggio intellettuale", opposta al semplice montaggio logico oppure cronologico di origine statunitense. La filmografia di Ejzensejn è relativamente limitata, perché spesso la concezione riflessiva anziché narrativa del cinema lo portò a scontrarsi prima con i colleghi della stessa scuola bolscevica, infine, con la presa del potere di Stalin e l'imposizione del "realismo", ad essere relegato in secondo piano.

Oltre alla Corazzata Potemkin di fantozziana memoria, forse l'apice della regia ejzensejniana è Ottobre (1928). Assegnatogli dal regime come opera storica celebrativa del decennale della rivoluzione, il film risulta essere una riflessione antinarrativa sugli avvenimenti, che fa perdere di vista le vicende storiche a chi non le avesse già ben chiare in testa. Ad esempio, celeberrima tra gli intenditori è la sequenza in cui a Kerenskji, reggente del governo temporaneo subentrato alla cacciata dello zar, viene giustapposta l'immagine di un pavone meccanico, a rappresentare la vanità del personaggio. Da qui ad un programma televisivo che accosta tra loro frammenti di televisione tra i più disparati a creare effetti comici o satirici, il passo è breve. Enrico Ghezzi, non per niente, è un ejzensejniano d.o.c., che ha saputo sapientemente sfruttare un linguaggio vecchio di quasi ottant'anni per criticare la società contemporanea, in barba ai medievali censori. Una buffa immagine può, forse, chiarire il concetto: una puntata di Blob "smontata" per trovare il messaggio "eversivo", "comunista" o tutte le altre parole che il vocabolario ha dato per sostituire il concetto che nelle loro teste è il guzzantiano "brutto!". I censori, basiti, vedranno che tra un'inquadratura e l'altra non c'è niente, e rimarranno con un pugno di mosche. (Da Blob: da Ejzenstejn a Ghezzi, Le radici storiche dell'ultimo programma libero italiano, di Fulvio Gatti)


  Da Il Centro

Tobias Jones: il cuore oscuro dell'Italia

Il giornalista britannico parla del suo ultimo libro   
«Un Paese spaccato è all'origine di tanti misteri»

Sabato 1 marzo 2003, di Giuliano Di Tanna

«Dell'Italia le cose che amo di più sono la generosità, il senso dell'umorismo e l'intelligenza. Non mi piacciono, invece, il conservatorismo feroce, l'assenza della cultura della parola e l'impunità». Tobias Jones riassume così i suoi quattro anni italiani.

Jones, 30 anni, gallese della Cornovaglia, laureato a Oxford in storia moderna, vive da quattro anni in Italia dove è giunto spinto dall'amore per una ragazza conosciuta in Inghilterra. Giornalista - per due anni è stato opinionista del quotidiano The Indipendent - Jones è diventato famoso, all'improvviso, il mese scorso, quando il Financial Times ha pubblicato un suo articolo fortemente critico verso la televisione italiana e il monopolio privato-pubblico che fa capo a Silvio Berlusconi. L'articolo intitolato «Il mio inferno televisivo in Italia», che ha suscitato grandi polemiche politiche in Italia, è una rielaborazione di uno dei capitoli del libro che Jones ha pubblicato in gennaio in Gran Bretagna, intitolato «The Dark Heart Of Italy - Travels Through Time And Space Across Italy» (Il cuore oscuro dell'Italia - Un viaggio attraverso il tempo e lo spazio in Italia). Il volume, edito da Faber and Faber (16,99 sterline, 256 pagine), è in vendita anche nelle maggiori librerie italiane e sarà tradotto e pubblicato, in settembre, dall'editore Rizzoli.

Il libro di Jones è uno sguardo approfondito sull'Italia e sui suoi misteri (da Piazza Fontana all'irresistibile ascesa di Berlusconi passando per il caso Sofri-Calabrese) di una persona profondamente innamorata dell'Italia che, tuttavia, ammette di non riuscire a penetrare e a decifrare il «cuore oscuro» del Belpaese.

Di questa impossibilità e del mistero della fascinazione che l'Italia esercita su uno straniero Jones ha accettato di parlare con il Centro.

Signor Jones, nell'affrontare il caso-Italia lei ha adottato il punto di vista tipico di quei visitatori anglossassoni che due scrittori come Henry James e Mark Twain definivano gli «innocenti all'estero». Perché?

«Perché ritenevo che uno sguardo naif fosse utile allo scopo che mi prefiggevo. Ridurre il mio "piccolo cervello" a una sorta di tabula rasa mi serviva per poter guardare alla storia e alla realtà italiane senza pregiudizi. Nel libro, tuttavia, c'è un doppio registro: da una parte, c'è la voce di un giornalista che racconta fatti anche personali; e, dall'altra, c'è quella dell'accademico informato che ha studiato la storia moderna italiana».

Una delle tesi del libro è che l'Italia non sia, in fondo, quel Paese tutto istintuale e informale che affascinava scrittori come Lawrence e Forster, ma un Paese governato da regole gerarchiche e formali molto rigide che si esprimono soprattutto attraverso il linguaggio: perché?

«Anche qui ci sono due lati della questione da affrontare. Ovviamente, è vero che qui in Italia c'è quella passione e quell'impetuosità assunte come stereotipi da quegli scrittori inglesi degli anni Venti. Ma c'è, d'altro canto, un aspetto per me inatteso: quello del formalismo estremo e del rispetto delle gerarchie nei rapporti privati. Quando si va in banca, all'ufficio postale, in TV o in radio ci si attiene sempre a un linguaggio ottocentesco che contrasta con quei caratteri di naturalezza che pure esistono e sono importanti».

È il linguaggio barocco della classe dirigente del Seicento manzoniano al quale lei allude nel libro?

«No so se l'Italia, da questo punto di vista, sia rimasta al Seicento. Forse nella sfera pubblica è così. Alla base delle mie riflessioni c'è, però, una considerazione che ritengo importante: la cultura italiana è basata sulla prevalenza della "visualità" sulla "letterarietà"».

Che cosa intende con questo?

«Voglio dire che nella cultura italiana il mezzo di comunicazione principale ? quello visivo e che la parola è meno importante. Basti vedere, per esempio, come il numero dei libri che si comprano in Italia sia infinitamente inferiore a quello che si riferisce all'Inghilterra».

Questa prevalenza del visivo sul letterario quali affetti ha sul costume e sulla cultura anche politica italiana?

«Questa prevalenza spiega, in parte, la bellezza del paesaggio anche artistico del Paese. Spiega, per esempio, il fatto che gli italiani sono infinitamente più eleganti degli inglesi. Se gli italiani hanno centri storici così belli, inoltre, ci sarà pure una ragione. Dal punto di vista politico, invece, spiega, per esempio, perché i dibattiti qui siano condotti attraverso i gesti e le immagini più che sul terreno propriamente delle idee. Spiega, inoltre, l'importanza che in Italia hanno le manifestazioni con le bandiere, i cortei. E spiega ovviamente perché la televisione in questo Paese sia l'epicentro della politica e del discorso pubblico. Il fatto che, in media, ogni italiano guardi la TV per più di quattro ore al giorno spiega a sufficienza perché la TV sia lo strumento politico più importante in assoluto del Paese. Basta guardare le polemiche che si sono accese intorno al rinnovo del consiglio d'amministrazione della Rai. Una cosa come questa è impensabile in altri Paesi. In Inghilterra sarebbe inimmaginabile un dibattito così violento su una questione del genere».

Una delle tesi centrali del libro è quella che i misteri italiani sono destinati a restare tali perché non c'è mai un'azione diretta al puro accertamento della verità, ma sempre e solo due verità politiche e ideologiche che si combattono e mirano a sconfiggersi a vicenda. Perché accade questo in Italia?

«Ci sono tantissime ragioni per le quali questi misteri non vengono risolti. Ma soprattutto c'è il fatto che ogni questione ? politicizzata. E questo vuol dire che ogni cosa viene sempre vista dai punti di vista di due o più schieramenti. E poi c'è, come dice Adriano Sofri nel libro, il gioco della dietrologia che spinge a non accettare mai la soluzione più semplice».

Nella persistenza della dietrologia nel discorso pubblico italiano gioca un ruolo la cultura cattolica?

«No. Secondo me, all'origine di questo fenomeno ci sono l'intelligenza e il cinismo degli italiani: una combinazione potentissima. Gli italiani non sono ciechi a causa del loro cattolicesimo, bensì per effetto della loro intelligenza un po' barocca e del cinismo che si proietta pressoché su ogni cosa».

La madre di tutti i misteri italiani è, per lei, la strage di Piazza Fontana avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969: perché quella strage è centrale nella storia italiana?

«Perché è una metafora della divisione totale tra i due popoli in cui l'Italia è spaccata dall'8 settembre 1943. È una storia incredibile che coinvolge così tante persone, dai politici alle forze dell'ordine: è il vostro "Bloody Sunday" (la strage di 13 indipendentisti nordirlandesi avvenuta per mano dell'esercito britannico, il 30 gennaio 1972, ndr) una cicatrice terribile sul corpo del vostro Paese. Il significato simbolico di Piazza Fontana resta fortissimo».

Il caso Sofri ha lo stesso significato simbolico della persistente divisione nazionale?

«Non lo so. L'aspetto che mi interessa di più del caso Sofri è che qui abbiamo finalmente una persona che è stata condannata definitivamente per un delitto che io definirei iconico. Ironicamente, però, questa condanna e questa detenzione in carcere riguardano una persona che milioni di italiani credono che non sia colpevole. L'ironia di questa situazione è impressionante in un Paese caratterizzato dal pentitismo e dalla non colpevolezza».

L'ascesa di Berlusconi è un altro mistero italiano?

«Berlusconi non sarebbe stato eletto se non fosse una figura che rispecchia bene una parte del popolo italiano. Così come la Thatcher in Gran Bretagna, negli anni Ottanta, rappresentava una fetta del mio Paese, Berlusconi rappresenta gli ideali e gli interessi della metà in cui è divisa l'Italia».

Quali ideali?

«Per esempio, quello dell'uomo forte dopo 50 anni di partitini e di governi che saltavano per aria ogni 9 mesi. Berlusconi è uno che è arrivato e ha detto: le cose sono così, c'è una destra e una sinistra, ci sono due poli. Ha semplificato tutto nel bene e nel male».

Lo spostamento dell'opposizione di sinistra su posizioni massimalistiche è paragonabile a ciò che accadde in Gran Bretagna quando, per 15 anni dopo l'elezione della Thatcher, il Labour Party fu guidato da estremisti?

«Non so se le due situazioni siano paragonabili. Io sono pessimista. Credo che tra qualche anno Berlusconi sarà capo dello Stato ed eserciterà il potere per almeno altri dieci anni. Non direi, però, che la sinistra in Italia sia sulle stesse posizioni estremistiche che aveva il Labour in Gran Bretagna negli anni Ottanta. Però la sinistra italiana ha attualmente difficoltà enormi».

Qual è la maggiore difficoltà?

«Il fatto che ci sono una dozzina di personaggi invece di un solo uomo come leader, il cosiddetto uomo della bandiera. E poi non c'è compattezza all'interno della sinistra. Non c'è una coalizione di ferro come a destra. E poi, naturalmente, c'è il discorso della televisione e del monopolio di Berlusconi. Quando vedo una rivista sportiva come Controcampo, con milioni di lettori, che fa una lunga intervista al premier, penso che queste sono risorse su cui la sinistra non può contare. Rutelli non ha una figlia a capo di una casa editrice come la Mondadori, né un amico a capo del Teatro Lirico di Milano».

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